domenica 17 luglio 2011

La comprensione degli aiuti

Quando termino il lavoro quotidiano con il mio cavallo, lui esce dal campo rilassato, perché ha una buona condizione fisica, perché ha lavorato decontratto, perché si è impegnato fisicamente ma soprattutto mentalmente. Non dico che sia fresco come una rosa come quando ha cominciato (dipende anche da quello che faccio) ma certamente l'aria è quella di chi ha passato una mezz'ora o un'ora piacevolmente.
Questo capita anche ai miei allievi, ovvero ai loro cavalli, almeno alla maggior parte.

Chi vede questi cavalli dopo il lavoro pensa che, obiettivamente, quello che fanno non può essere così impegnativo, e comunque si tratta di cose fatte all'acqua di rose, giusto per passare il tempo. L'aria rilassata non si addice a un cavallo che ha dato il meglio di sè e si è impegnato a fondo nel lavoro, che sia in piano o sui salti, è questa l'idea di fondo. Eppure morfologicamente questi cavalli diventano, anno dopo anno, sempre più belli. E, fortunatamente, sempre più bravi.
In effetti l'equitazione moderna, sportiva in particolare, richiede un lavoro muscolare basato su un notevole chilometraggio ad andature sostenute, per potere fiaccare le resistenze del cavallo, poter avere un certo controllo, e anche una collaborazione che spesso all'inizio non c'è finché il cavallo è fresco fisicamente. Insomma l'idea è che comunque se, alla fine del lavoro, il cavallo schiuma, ansima, ha gli occhi fuori delle orbite e le narici dilatate, significa che il lavoro stesso ha dato i suoi frutti... o dovrà darli.

Molti miei colleghi istruttori (e i loro allievi) sono in effetti convinti che quello che faccio e faccio fare ai miei allievi in un certo senso non sia vera equitazione, perché non si notano nei nostri cavalli questo tipo di sforzi, di contrazioni fisiche muscolari (considerate da loro positive), di vera e propria ansia nell'espressione.

Si è completamente perso di vista il fatto che l'equitazione è una successione di elementi da apprendere da parte del cavallo, cominciando dal linguaggio degli aiuti, cioé il significato della mano (cessione della mascella, mezza fermata, azione-reazione, ecc.), e quello delle gambe (con l'aiuto della frusta, risposta in avanti immediata alla loro pressione leggera). Prime lettere dell'alfabeto che danno luogo a elementi più complessi, come la parola (transizioni semplici, lavoro su due piste) e la frase (cambi di galoppo, transizioni complesse, riunione). Niente di muscolare, di fisicamente probante, con ripetizioni ossessive di esercizi e trottate e galoppate estenuanti. Solo una comprensione chiara di quello che gli si chiede, perfezionando la comunicazione attraverso un linguaggio il più possibile "equino".

Per esempio, se il mio cavallo non flette l'incollatura a destra ed io mi metto a trottare nel circolo a mano destra mezz'ora o più, con la gamba destra alla cinghia che spinge e la mano destra bassa e fissa che "resiste", faccio un lavoro di ripetizioni ossessive di circoli, di estenuante pseudo-ginnastica, di endurance da maneggio, il tutto per portare il "malvolenteroso" cavallo a concedere questa maledetta flessione dell'incollatura tanto agognata.
Ma se io, con lo stesso cavallo, agisco sulla sua bocca dal basso verso l'alto con la redine interna (per non agire da avanti a indietro sulla lingua, organo sensibile che, se schiacciato, genera dolore), e faccio questo prima da fermo, poi al passo e poi al trotto (magari avendogli spiegato il significato della mano da terra), senza usare assolutamente la gamba interna (che per il cavallo non ha significato finché non gliene si dà uno), arrivo a ottenere un risultato migliore senza sprecare energie fisiche e nervose, senza fare trentamila circoli al trotto, senza aver bisogno di chiudibocca, redini di ritorno e quant'altro.

Non è l'esercizio (circolo a mano destra al trotto di lavoro, come in questo caso) che porta il cavallo a dare la flessione a destra, ma è la comprensione della mano del cavaliere che lo porta docilmente e senza sforzo, oltre che senza battaglie, a questo.

Si dimentica che il cavallo ha un cervello, e apprende allo stesso modo di un bambino che a scuola dispone un/una maestro/a paziente che spiega, corregge, ricompensa, andando dal facile al difficile, dal semplice al complicato. L'idea generale invece è che il cavallo debba fare questo, debba fare quello ("il cavallo DEVE", quante volte si sente questo), non importa come, basta che lo faccia. L'insegnamento generalmente viene portato avanti come se al bambino di cui sopra gli si insegnasse l'alfabeto e le prime parole a suon di bacchettate sulla schiena, legandolo alla sedia e imbavagliandolo.

Tutto ciò è anche il risultato di un'equitazione che vede nella competizione la sua massima espressione (di per sè non una cosa negativa), là dove la competizione stessa, nel corso di almeno un secolo, ha portato progressivamente i cavalieri alla logica del fine che giustifica i mezzi, non importa quali essi siano. Inoltre ha creato una subcultura che richiede meno conoscenza dei metodi più logici e naturali per addestrare un cavallo che ci hanno tramandato i grandi uomini di cavalli del passato, e invece una conoscenza sempre più approfondita delle imboccature e delle redini ausiliarie di tutti i tipi, dei prodotti  farmacologici, e dei trucchi più scellerati per obbligare i cavalli a fare qualcosa che ormai loro non vogliono più fare.

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